Ci sono sculture che sembrano fatte solo per essere viste da lontano, per girarci attorno lasciando che la distanza, l’aria, la luce e lo sfondo ce le descrivano compiutamente, ce le imprimono nel cuore per rigettarle o, eventualmente, per imparare ad amarle. Altre, invece, qualunque sia la loro dimensione, non potremo mai capirle ed apprezzarle a fondo fino a quando non le avremo toccate, accarezzate, palpate, annusate da vicino: fino a quando non le avremo, direi, quasi abbracciate. E’ certamente il caso di queste opere di Cattaneo, così dense e sovrabbondanti di un loro fascino tutto formale, di una loro seduzione tutta suggestivamente tattile e plastica, così rigogliosamente sode da far subito prudere le mani nella voglia di seguirne i morbidi contorni, di accertarci, con il palmo e i polpastrelli delle dita, della loro affabile consistenza lignea.

Nell’itinerario espressivo di Pierluigi Cattaneo, che viene da una pittura figurata cui progressivamente si è venuta facendo luce l’esigenza di far crescere i materiali per piani e quinte sovrapposti, per incastri ed embricature, per vibrazioni spaziali di testure rugose come di intonaci a fresco, questo particolare linguaggio di forme e volumi si è lentamente sviluppato accanto ad altre ricerche, in parallelo, dunque, con diverse e magari anche contrastanti concezioni poetico-visive.

A me pare che questo particolare nucleo di lavori, questa specifica linea di indagine e di realizzazioni possieda una sua speciale, interna energia di forte persuasività. Rappresenti insomma, la strada (e insieme, indubbiamente, anche un serbatoio di risultati già raggiunti e notevoli) più fruttuosa, più spiccatamente individuale, più congeniale ai suoi mezzi ed al suo particolare talento plastico che l’ancora giovane artista gardonese abbia intrapreso fino ad oggi. C’è infatti, in queste opere in cui il legno giunge talvolta ad assumere inedite e sorprendenti morbidezze, qualcosa di lietamente naturale, di spontaneo, di non artificiale né affettato. C’è un nucleo -direi- di sorgiva felicità, come può essere per una operazione fortemente ed intimamente sentita: qualcosa, dunque, che risponde autenticamente ad una aspirazione vera, ad un dato poetico sincero.

Ma qual è (al di là di una forma di linguaggio immaginativo capace di dare, come questo, la sensazione immediata di trovare quasi magicamente le ragioni della propria genesi) il segreto più fondante del fascino di queste opere? Non c’è dubbio, almeno per me, che la suggestione maggiore è costituita da un nucleo molto intimo, molto interno alle forme stesse. Un nucleo che definirei di adesione fondamentale agli archetipi stessi della natura, nutrito di una sorta di pan-morfismo che è adesione totale e senza riserve alle forme primarie dell’organico, del vegetale, del minerale. Forme assunte, imitate e, certo, trasfigurate dall’artista in tutto ciò che esse hanno di più affabile, di più umanamente cordiale, di più teneramente vitale per l’uomo d’oggi e per la sua sensibilità, resa precaria e fragile dalle minacce esistenziali cui siamo quotidianamente sottoposti. E’ qui che le opere di Cattaneo, senza particolari programmi o concettualismi, parlano per noi tutti una sorta di lingua universale, la lingua, insomma, del seme e dell’uovo, della matrice femminile e del principio inseminatore maschile, le curve gentile e calde dell’innescamento della vita, del suo sviluppo, della sua eterna e tenera concretezza.

Henry Moore, altro scultore -e certo ben più storicamente e meritoriamente noto- pure lui poeta dell’immagine organica e naturale, ha lavorato per molti anni in direzioni affini, anche lui “in togliere”, con la pietra e con il marmo. E, forse, qualcosa di quelle formidabili immagini ha potuto anche stringere qui, ha potuto anche attecchire nella sensibilità di questo artista della Valtrompia. E’ però evidente che c’è nelle sue immagini qualcosa di fortemente personale, di risolto in modo individuale e autonomo. Che c’è, quindi, un fascino particolare da segnalare, da sottolineare con grande interesse per ciò che ci ha già dato e per ciò che ci potrà dare.

Giorgio Seveso – Milano 1990


NATURE IN THE HANDS

There are sculptures that seem to have been made only to be seen from far away, to be turned round, letting the distance, the air, the light and the background describe them completely, engrave them in the heart, in order for us to reject them or, in case, to learn to love them. Others, instead, whatever their size may be, will never be understood and appreciated to the bottom, until we touch, caress, feel or smell them closely; until we, I would say, almost embrace them. The latter is certainly the case of these works by Cattaneo, so dense and extremely rich in their own formal charm, their own suggestively tactile and plastic seduction; they are so luxuriantly thick that they make the hands itch in the desire to follow their soft contours, to ascertain, with our palms and fingers, thier affable wooden consistence.

In the expressive itinerary of Pierluigi Cattaneo, who comes from figurative painting gradually enlightened by the need to make the materials grow by superimposed planes and scenes, by joints and imbrications, by spatial vibrations of wrinkled textures as if of frescoed plasters, this particular language of shapes and volumes has slowly developed beside other searches, thus in parallel with different and perhaps contrasting poetic-visual conceptions.

It seems to me that this particular nucleus of works, this specific line of inquiry and of realizations, owns its special inner energy of strong persuasiveness; that it actually represents the path ( and with it, no doubt, also a reservoir of already achieved and outstanding results) which is the most fruitful, remarkably individual and congenial one to his means and to his particular plastic talent that the still young artist from Gardone has undertaken up to now. There is indeed, in these works in which the wood sometimes manages to assume new and surprising softness, something gladly natural, spontaneous, neither artificial nor expected. There is a kernel, I would say, of pure happiness, as it may be for a strongly and intimately felt operation: something, therefore, which is the authentic answer to a true aspiration, to a sincere poetic datum.

But what is (besides the form of an imaginative language able to give, like this one, the immediate sensation of finding almost magically the reasons for its own genesis) the most founding secret of the charm of these works? There is no doubt, at least for me, that the main suggestion is constituted by a deep-rooted core, deeply inside the shapes themselves. A core which I should define of fundamental adhesion to the very archetypes of nature and which is nourished by a sort of pan-morphism, the total and open adhesion to the primary organic, vegetable and mineral forms. Forms which are assumed, imitated and, obviously, transfigured by the artist into all that they have of humanly warmest, most affable and tenderly vital fo the modern man and his sensibility made precarious and fragile by the existential threats which we are daily submitted to. It is in this that Cattaneo’s works, without any particular program or conceptualism, speak for all of us a sort of universal language, namely the language of the seed and the egg, of the female matrix and of the male inseminating principle, the gentle and warm curves of the making of life, of its development, of its eternal and tender concreteness.

Henry Moore, a scupltor as well – and certainly historically and deservingly much better-known – a poet of the organic and natural image as well, he worked long years in similar directions, he, too, “removing”, with stone and marble. And, perhaps, something of those formidable images has been able to tighten, even to take root in the sensibility of this artist from the Trompia Valley. It is however evident that in his images there is something stronly personal, individually and autonomously solved. That there is, therefore, a particular charm to point and to underline with great interest for what he has already given and still will be able to give.

Giorgio Seveso – Milano 1990